Mediazione famigliare: «mediagire» verso la diversità
In uno dei primi episodi di Fairly Legal, un interessante serial televisivo che ha come protagonista una mediatrice (Kate Reed), David Nicastro, giudice del tribunale in cui la mediatrice spesso opera, con quella bella capacità di sintesi che ha la lingua anglosassone e che il media televisivo, se è possibile, ancor più accentua, così definisce, a un gruppo di contendenti, il senso del mediare: "Kate Reed," dice (badate bene un giudice, non il portavoce del collettivo Bakunin): "non è un avvocato. È una mediatrice, in pratica è un arbitro in una partita senza regole, le cui regole le fanno la parti stesse.".
Un arbitro in una partita senza regole in cui le regole le fanno la parti stesse.
Personalmente credo sia una delle più efficaci definizioni della mediazione e, immagino non a caso, gli autori l'abbiano messa in bocca proprio a un giudice, come a fare decretare, da chi disciplina la legge, il fatto che la mediazione nulla ha a che fare con la legge (qualsiasi legge), poiché il suo compito è: inventare un'altra legge, pur non deviando dalla legge, aiutando le parti a generarla ex-novo, affinché disciplini la loro singola e unica diatriba, in modo che entrambe ne risultino soddisfatte.
Per quanto concerne la professione dello psicologo, immaginando una figura simile a quel giudice, la scena non muterebbe di una virgola, tranne che, quel "senza regole", si riferirebbe al codex specifico della psicologia e sarebbero, quindi, le sue leggi e le sue presunte verità, similmente alle presunte verità del diritto, sottratte alla mission del mediatore.
Il compito del mediatore non è, infatti, quello di perorare le cause di una delle parti a scapito dell’altra, come vorrebbe l’ufficio dell’avvocatura né, tantomeno, stabilire chi ha ragione e chi torto, come accadrebbe disciplinando la diatriba in punta di diritto; ugualmente il suo ruolo non è nemmeno quello di fornire un aiuto alle parti, o a una di esse, attraverso colloqui di sostegno, strumenti diagnostici, consulenze, ecc., cosa che atterrebbe alla professione dello psicologo.
La specificità della mediazione, al di là di ogni vetusta definizione che la vorrebbe sorellina storpia della giurisprudenza e della psicologia, è quella di mediare, ossia di entrare nei più differenti contesti rifiutando il rigore di qualsivoglia codex, il rigore dell’oggettivazione, mettendosi, cioè, in gioco “senza memoria”; agendo sempre al "presente vivo" della scena in atto, così da abbracciare per davvero le molteplici soggettività che sono coinvolte insieme alle parziali verità che le spingono ad agire.
Nel paradigma della mediazione è, inoltre, assente (o -ahimè- dovrebbe esserlo) qualsiasi etichettatura diagnostica tesa a evidenziare disturbi o patologie, così come dovrebbe essere assente qualsivoglia tassonomia che svierebbe il mandato del mediatore. La mediazione, infatti, non è interpretativa ma dispiegativa di ogni materialità che le parti lasciano emergere e che contestualizza e dà senso all’oggetto in esame, permettendo di cogliere la pienezza dell’esperienza che produce e di interrogarsi, in questo caso, sulle potenzialità latenti o manifeste delle parti stesse per affrontare, a partire dal contesto, la situazione che le divide passando dal disaccordo all'accordo, dal conflitto alla cooperazione, dalla fine dell'amore coniugale al principio di un "amore diverso", come più volte abbiamo espresso in questi nostri articoli.
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